Pre-Annual General Meeting Information • Apr 10, 2018
Pre-Annual General Meeting Information
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TELECOM ITALIA S.P.A.
c.a.: avv. Agostino Nuzzolo
Oggetto: Integrazione da parte del Collegio sindacale dell'ordine del giorno dell'assemblea del 24 aprile p.v. - Nota.
Milano, 5 aprile 2018
La presente nota esamina le recenti vicende relative alla integrazione dell'ordine del giorno dell'assemblea di TIM convocata per il 24 aprile 2018. L'integrazione è stata disposta dal Collegio sindacale su richiesta di soci riconducibili al fondo Elliott. L'opinione che viene espressa è che la decisione assunta dal Collegio sindacale non è conforme alla legge e allo statuto per le seguenti principali ragioni:
(i) le dimissioni rassegnate dalla maggioranza dei componenti del Consiglio di Amministrazioni hanno attivato la clausola simul stabunt simul cadent prevista dallo statuto sociale di TIM;
(ii) la clausola statutaria impone l'obbligo di rinnovare il Consiglio di Amministrazione nella sua interezza: i punti aggiunti dell'ordine del giorno implicano la violazione di tale obbligo;
(iii) la clausola statutaria, inoltre, legittimamente dispone che, nel caso di dimissioni della maggioranza dei componenti del Consiglio di Amministrazione, rimangano in carica, fino all'integrale rinnovo del Consiglio stesso, solamente i componenti che non hanno volontariamente rassegnato le proprie dimissioni. I punti aggiunti dell'ordine del giorno, pertanto, implicano una delibera giuridicamente impossibile, e cioè la revoca di consiglieri che non saranno tali al momento della ipotizzata delibera.
This memo analyses the recent events about the integration of the agenda of TIM shareholders' meeting called for the 24th of April 2018. The mentioned integration has been ordered by the Supervisory Board upon request made by Elliott investment fund. The opinion here expressed is that the decision taken by the Supervisory Board does not comply with the law and the company's bylaws for the following principle reasons:
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(i) The resignations of the majority of Board's members triggered the "simul stabunt simul cadent" clause provided by TIM's bylaws;
(ii) The mentioned bylaws' clause provides that the Board, in these circumstances, has to be newly appointed in its entirety: the items added in the agenda imply a breach of this duty;
(iii) The mentioned bylaws' clause, moreover, provides, in compliance with the law, that, in the event of resignations by the majority of Board's members, the members that did not voluntary resign are the only ones that remain in office. The items added in the agenda, therefore, imply a resolution that is legally impossible: the revocation of Board's members that will not be in office when such resolution should be taken.
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I soci Elliott International LP, Elliott Associates LP e The Liverpool Limited Partnership in data 14 marzo 2018 richiedono l'integrazione dell'agenda dei lavori dell'Assemblea degli azionisti ordinari della Società, già convocata per il giorno 24 aprile 2018, mediante inserimento dei seguenti due argomenti:
1. Revoca di 6 Amministratori nelle persone dei Signori Arnaud Roy de Puyfontaine, Hervé Philippe, Frédéric Crépin, Giuseppe Recchi, Félicité Herzog e Anna Jones;
2. Nomina di 6 Amministratori nelle persone di Fulvio Conti, Massimo Ferrari, Paola Giannotti De Ponti, Luigi Gubitosi, Dante Roscini e Rocco Sabelli, in sostituzione di quelli revocati ai sensi del precedente punto all'ordine del giorno.
Il Consiglio di Amministrazione di TIM in data 22 marzo 2018 ha preso atto delle dimissioni del Vice Presidente Esecutivo (oltre che Presidente del Comitato Strategico) Giuseppe Recchi, con decorrenza immediata.
Nel corso del medesimo Consiglio di Amministrazione, hanno rassegnato le proprie dimissioni con decorrenza dal giorno 24 aprile 2018, prima dello svolgimento dell'assemblea ordinaria della Società convocata (inter alia) per approvare il bilancio di esercizio 2017, altri sette consiglieri, risultando così complessivamente dimissionari otto su quindici consiglieri.
Dal 24 aprile 2018 (data di efficacia delle dimissioni di sette amministratori che si aggiungono alle dimissioni dell'amministratore Recchi) si integreranno le condizioni di cui all'art. 9.10 dello Statuto di TIM, che recita:
Ogni qualvolta la maggioranza dei componenti il Consiglio di Amministrazione venga meno per qualsiasi causa o ragione, i restanti Consiglieri si intendono dimissionari e la loro cessazione ha effetto dal momento in cui il Consiglio di Amministrazione è stato ricostituito per nomina assembleare.
Il Consiglio di Amministrazione di TIM ha pertanto deciso a maggioranza, ai sensi del precitato art. 9.10 dello Statuo, di convocare per il giorno 4 maggio 2018 un'ulteriore assemblea per procedere all'integrale rinnovo dell'organo consiliare, senza dunque procedere all'integrazione dell'ordine del giorno dell'assemblea del 24 aprile 2018 (relativa alla revoca e alla sostituzione dei Consiglieri de Puyfontaine, Crépin, Herzog, Jones, Philippe e Recchi, che alla data saranno tutti dimissionari e cessati). Sul punto, si ricorda che gli amministratori possano pacificamente sottrarsi all'obbligo di convocare su richiesta della minoranza un'assemblea quando gli argomenti proposti siano impossibili o illeciti; è questo un principio pacifico accolto a livello manualistico (CAMPOBASSO, Diritto delle società, Milano, 2009, nota 7, p. 310) e dalla dottrina specialistica (sin da SERRA, L'assemblea: procedimento, in Trattato delle S.p.A., diretto da Colombo Portale, vol. III, Torino, 1994, p. 75 ss.; LIBERTINI-MIRONE-SANFILIPPO, L'assemblea di società per azioni, Milano, 2016, p. 135).
I soci richiedenti hanno a questo punto inoltrato al Collegio sindacale richiesta di procedere esso stesso all'integrazione, con lettera datata 23 marzo 2018. Nella propria lettera di richiesta, i soci hanno peraltro richiesto l'integrazione con un ordine del giorno non coincidente rispetto a quello contenuto nella originaria richiesta di integrazione.
Il Collegio sindacale, aderendo alla richiesta, all'unanimità, ha deciso di provvedere, ai sensi dell'art. 126-bis, comma 5, D. Lgs. 58/98, all'integrazione dell'ordine del giorno nei termini (come detto: non uguali a quelli a suo tempo richiesti) indicati da Elliott in data 23 marzo, termini qui di seguito riportati:
(i) revoca di amministratori (nella misura necessaria in funzione della cronologia delle dimissioni intervenute nel corso della riunione consiliare del 22 marzo 2018 ai sensi dell'art. 2385, primo comma, cod. civ.);
(ii) nomina di sei amministratori nelle persone dei Signori Fulvio Conti, Massimo Ferrari, Paola Giannotti De Ponti, Luigi Gubitosi, Dante Roscini e Rocco Sabelli, in sostituzione dei cessati Signori Arnaud Roy de Puyfontaine, Hervè Philippe, Frédéric Crépin, Giuseppe Recchi, Félicité Herzog e Anna Jones.
Il Collegio sindacale ha inoltre redatto una propria breve nota esplicativa, nella quale motiva la propria delibera riscontrando "l'esistenza di espresse posizioni, sia in giurisprudenza (Tribunale di Milano), sia all'interno di autorevole dottrina scientifica e di massime notarili, idonee a supportare alla luce della lettura coordinata degli art. 2385 e 2386 cod. civ., nonché della clausola 9.10 dello statuto sociale di TIM, la permanenza nella carica, anche successivamente alla data del 24 aprile 2018 (data di efficacia indicata nelle rispettive dimissioni)" dei sette consiglieri dimissionari oltre Recchi. Di qui la tesi circa la legittimità e la possibilità di una delibera di revoca dei medesimi soggetti, e circa la legittimità (questa invero non particolarmente argomentata dall'organo di controllo) della eventuale nomina di nuovi amministratori (in numero di sei, e così in numero inferiore ai consiglieri dimissionari) secondo votazione da assumersi a maggioranza ordinaria di legge, senza voto di lista.
Si chiede se in tale contesto sia lecita l'integrazione dell'ordine del giorno così come disposta dal Collegio sindacale a fronte delle istanze di Elliott International ed altri. La risposta richiede un'attenta ricostruzione dei rapporti tra art. 2385, primo comma, e art. 2386, quarto e quinto comma, cod. civ., ed una analisi sul contenuto della clausola simul stabunt simul cadent di TIM alla luce delle disposizioni (appunto, il sistema dell'art. 2386, quarto e quinto comma) che la legittimano.
Come si ricordava poc'anzi, Elliott International ed altri chiesero l'integrazione dell'ordine del giorno dell'assemblea di bilancio di TIM prima del verificarsi del fatto nuovo delle dimissioni, oltre che dell'ing. Recchi, di altri sette amministratori e così della maggioranza del Consiglio.
Le dimissioni con la conseguente operatività della clausola TIM simul stabunt rendono a mio avviso irricevibile la richiesta di integrazione ex art. 126 TU 58/98. Elliott International e il Collegio sindacale ritengono invece di "salvare" la richiesta di integrazione dell'ordine del giorno (peraltro, come detto, modificando il tenore della stessa) invocando la regola contenuta nell'art. 2385, primo comma. Tale via peraltro non è percorribile già alla stregua della formulazione letterale della disciplina dell'art. 2385, primo comma e dell'art. 2386, secondo comma, ma soprattutto perché la fattispecie dell'art. 2385, primo comma differisce radicalmente da quella che sta a base della disciplina delle clausole simul stabunt.
Iniziamo allora dal piano letterale, e ricordiamo anzitutto che l'art. 2385 stabilisce che le dimissioni di amministratori ("rinunzia") hanno effetto immediato solo se rimane in carica la maggioranza del Consiglio. Se invece è la maggioranza a dimettersi, le dimissioni sono posticipate al momento in cui la maggioranza si è ricostituita. Ciò comporta che quando si dimette la maggioranza di consiglieri si deve convocare – come prevede l'art. 2386, secondo comma – un'assemblea per la loro sostituzione: questa convocazione avviene da parte del Consiglio uscente, comprensivo dei dimissionari in prorogatio.
Senonché il "sistema" dell'art. 2385, primo comma, non sembra concedere la possibilità, per raggiungere il risultato fattuale della reintegrazione della maggioranza dimissionaria, di "utilizzare" una assemblea (o un determinato punto all'ordine del giorno) programmata per qualche cosa di radicalmente diverso: e cioè, nel caso di specie, la sostituzione di consiglieri per il caso del tutto eventuale di loro previa cessazione per causa diversa dalle dimissioni (revoca).
L'art. 2385, primo comma, va infatti letto, si diceva, con l'art. 2386, secondo comma. La prima norma parla degli effetti della cessazione per dimissioni e ci dice che se si dimette la maggioranza queste dimissioni hanno effetto dalla ricostituzione assembleare della maggioranza stessa. La seconda norma, l'art. 2386, secondo comma, completa la prima (art. 2385, primo comma) perché regola il modo con cui la sostituzione deve avvenire. Ebbene, per addivenire a questa sostituzione, avverte l'art. 2386, secondo comma, occorre che gli amministratori in carica convochino una assemblea ad hoc.
Mi pare allora che, secondo il chiaro tenore letterale delle disposizioni qui in commento, non si possa utilizzare un'assemblea convocata prima delle dimissioni senza avere all'ordine del giorno la nomina di amministratori in sostituzione di amministratori cessati per rinunzia per il solo fatto che sussiste una richiesta di un socio di integrazione dell'ordine del giorno di una assemblea già convocata avente ad oggetto l'eventuale nomina di amministratori per sostituire una possibile cessazione conseguente non a rinunzia, ma a una proposta di revoca.
Pertanto, già alla stregua dell'art. 2385, primo comma – che peraltro non trova, come si vedrà, nella specie applicazione – la convocazione disposta dal Collegio sindacale per sostituire amministratori dimissionari: (i) sarebbe in violazione dell'art. 2386, secondo comma, in quanto non proviene affatto, come invece vuole detto articolo, dagli amministratori rimasti in carica, cioè da tutto il Consiglio; (ii) prevedeva una sostituzione di amministratori non per una già avvenuta cessazione per rinunzia seppure con effetto differito (come è il presupposto della combinata lettura dell'art. 2385, primo comma, e 2386, secondo comma), ma una sostituzione se ed in quanto fossero stati revocati alcuni amministratori, oltretutto non esattamente coincidenti con i dimissionari.
"Prevedeva", ho precisato, l'ordine del giorno oggetto della originaria richiesta di integrazione di Elliott e altri, perché in effetti l'ultima versione dell'ordine del giorno oggetto dell'ultima versione dell'integrazione richiesta da Elliott, cerca di correggere, eliminandolo, il riferimento alla "sostituzione per revoca". Ma così facendo, il Collegio sindacale effettua un tentativo di rimettere il treno in corsa, ma fuori termine massimo (essendo stata la nuova e definitiva versione dell'ordine del giorno varata dopo la scadenza del termine per richiedere l'integrazione dell'ordine del giorno medesimo). E comunque, rimane il fatto che l'assemblea chiamata alle nomine non è l'assemblea convocata dai soggetti e nei modi prescritti dalla legge per la reintegrazione del Consiglio in cui si sono avute le dimissioni di una maggioranza di consiglieri.
Anche a prescindere dalla lettura che si è appena richiamata dell'art. 2385, si deve in ogni caso osservare che l'iter logico e la scelta del Collegio sindacale urta clamorosamente, contraddice, ignora la disciplina di legge e di statuto delle cc.dd. simul stabunt simul cadent.
Iniziamo dalla legge.
Fino al 2003 la liceità delle clausole per cui le dimissioni di alcuni amministratori comportano la cessazione dell'intero Consiglio era discussa. Con la riforma del 2003, il codice civile all'art. 2386 tipizza, considerandola pienamente meritevole di tutela, la clausola che preveda che con le dimissioni di "taluni" amministratori cessi l'intero Consiglio. La legge, e cioè sempre l'art. 2386, quarto comma, collega la liceità delle clausole simul stabunt alla "cessazione" di taluni amministratori. Il termine comprende senza dubbio qualsiasi causa di cessazione, e così pure la "rinunzia", cioè le dimissioni, di cui si occupa pure l'art. 2385, primo comma.
Veniamo allo statuto. La clausola TIM sopra riprodotta si allinea alla facoltà concessa dalla legge perché collega al presupposto che "la maggioranza di consiglieri venga meno per qualsiasi causa o ragione" – comprese dunque la rinunzia, le dimissioni – la cessazione di tutto il Consiglio ("i restanti consiglieri si intendono dimissionari").
L'art. 2386, quarto comma, dunque legittima la deroga alla fattispecie presupposta dall'art. 2385, primo comma. Infatti, la disciplina dell'art. 2385 non impone affatto il rinnovo dell'intero Consiglio, ma solo un intervento assembleare "selettivo" richiesto dal Consiglio di cui fan parte i dimissionari, che reintegri un numero di consiglieri necessario a fare sì che la maggioranza del Consiglio sia di nomina assembleare. La fattispecie facoltizzata dall'art. 2386, quarto comma e adottata dallo statuto TIM è caratterizzata, al contrario, dalla circostanza che il venir meno della maggioranza azzera (si vedrà che, se anche con effetti in tutto o in parte differiti, sempre azzeramento si ha) l'intero Consiglio, di guisa che l'assemblea è chiamata in tale caso a rinnovare l'intero organo, e non solo quella parte di consiglieri che con la loro cessazione hanno dato (legittimamente) causa alla cessazione dell'intero Consiglio.
Ai fini che qui interessano, si deve dunque sottolineare che sulla scorta di quanto già affermato dalla Suprema Corte (Cass. 5 settembre 1997), diventa assolutamente pacifico, con la riforma del 2003 (che ha introdotto il quarto e modificato il quinto comma dell'art. 2386), che la prorogatio della maggioranza degli amministratori dimissionari in vista della loro sostituzione "selettiva", vale a dire la regola dell'art. 2385, primo comma, non è affatto principio inderogabile di ordine pubblico, ma principio del tutto derogabile. Derogabilità che, dopo il 2003, viene appunto espressamente sancita dalla legge stessa in modo inequivoco all'art. 2386, quarto comma (SANFILIPPO, Commento agli artt. 2385 e 2386 c.c., in Le società per azioni, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Milano, 2016, p. 1268.).
Un'ulteriore conclusione si impone come inevitabile corollario di quanto si è appena detto in ordine alla specificità derogatoria dell'art. 2386, quarto comma (e così delle clausole statutarie che ne fanno applicazione) rispetto alla fattispecie dell'art. 2385, primo comma, per quanto attiene ad una società quotata come TIM.
E cioè: la ricostituzione (non solo di parte, come richiede l'art. 2385, ma) dell'intero Consiglio cessato deve avvenire in un solo contesto in modo da rendere pienamente applicabile la disciplina (questa sì, inderogabile) del voto di lista e così in modo da consentire l'instaurazione dei rapporti maggioranza – minoranza, di genere, di presenza di indipendenti ecc., che caratterizzano come tratto essenziale la disciplina dell'organo amministrativo della società quotata. Se fosse possibile reintegrare l'intero Consiglio con successivi "rabbocchi" parziali si violerebbe dunque la disciplina imperativa sulla modalità di nomina degli organi di amministrazione delle società quotate. In altri termini ancora: se a fronte dell'attivazione di una clausola simul stabunt si pretendesse di reintegrare la sola maggioranza del Consiglio (pretendendo una impossibile, giuridicamente, applicazione dell'art. 2385, primo comma, anche in un territorio che vi deroga), si violerebbe non solo la portata e la logica della medesima simul stabunt, ma anche la normativa imperativa sui check and balance o se si preferisce, usando termini attuali, sulla diversity che deve caratterizzare il Consiglio di una società quotata.
Ecco dunque che la visione di insieme della integrazione dell'ordine del giorno cui ha proceduto il Collegio sindacale svela appieno la sua più radicale ragione di illegittimità: essa dà ingresso ad un meccanismo di sostituzione di amministratori che viola palesemente la disciplina in punto di nomina di amministratori dello statuto e delle società quotate.
L'art. 2385, primo comma, come si diceva, oltre a presupporre (a differenza delle clausole simul stabunt) che la rinunzia della maggioranza degli amministratori non comporta la cessazione di tutti gli amministratori e dunque non impone la ricostituzione del Consiglio nella sua interezza, detta un altro principio, e cioè che le dimissioni della maggioranza debbano avere effetto differito alla ricostituzione della maggioranza stessa (perché si dovrebbe assicurare una continua riconduzione della gestione alla volontà assembleare che esprime l'organo gestorio).
Ebbene, anche sotto questo profilo l'art. 2386, quarto comma, e soprattutto l'art 2386, quinto comma, lasciano invece piena autonomia agli statuti che si valgono della clausola simul stabunt di modulare la decorrenza degli effetti della clausola, limitandosi solo a dettare una regola di default nel silenzio dello statuto sulla decorrenza degli effetti.
La regola di default nel silenzio dello statuto è che "l'assemblea per la nomina dei nuovi amministratori" (con ciò intendendosi, si ribadisce nuovamente, tutto il Consiglio, perché il presupposto espresso della legge è che con la clausola simul stabunt "cessi l'intero Consiglio") è convocata d'urgenza dagli amministratori rimasti in carica. Dato questo assetto di default, sarà poi l'autonomia statutaria a formulare la scelta ritenuta più appropriata in punto di "tempistica", e potrà spingersi sino ad attribuire efficacia immediata sia alla rinunzia di coloro che prendono l'iniziativa delle dimissioni sia alla cessazione di tutti gli altri amministratori.
Come è esattamente notato, la clausola simul stabunt può dunque atteggiarsi in vari modi e così contemplare:
"a) una prorogatio dei poteri in capo all'intero consiglio fino alla accettazione della carica da parte dei nuovi consiglieri, eletti dall'assemblea convocata proprio dal consiglio prorogato;
b) la permanenza in carica dei soli consiglieri non dimissionari fino alla sostituzione dell'intero consiglio da parte dell'assemblea, che gli stessi consiglieri rimasti in carica sono tenuti a convocare;
c) l'immediata e contestuale decadenza dell'intero consiglio di amministrazione, con attribuzione dei poteri di ordinaria gestione al collegio sindacale, che deve provvedere con urgenza alla convocazione dell'assemblea per la nomina del consiglio;
d) la decadenza dell'intero consiglio, senza alcuna specifica indicazione del momento di cessazione dello stesso (in tal caso quando la clausola viene dettata anche per le dimissioni degli amministratori, è necessario prevedere che esse siano immediatamente efficaci in deroga all'art. 2385 c.c. tale deroga peraltro deve di certo ritenersi possibile, atteso che la regola della proroga della maggioranza dimissionaria non risponde ad alcun interesse di ordine pubblico e non può essere considerata inderogabile)" (PAGANO, Commento all'art. 2386 c.c., in Codice commentato delle S.p.A., diretto da G. Fauceglia e G. Schiano di Pepe, Milano, 2007, p. 678).
Si è data enfasi alle ultime considerazioni svolte dall'Autore citato perché pare dalla nota esplicativa del Collegio sindacale che la libertà statutaria in materia di modulazione delle clausole simul stabunt dovrebbe considerarsi invece amputata per fare spazio alla disciplina della prorogatio (in caso di dimissioni della maggioranza dei consiglieri) prevista dall'art. 2385. La tesi porta però ad un risultato paradossale, e come tale non condivisibile, che è quello di una limitazione della libertà statutaria che viene esercitata in un assetto di autoregolamentazione che…per legge vuole derogare alla disposizione che invece il Collegio vuole preservare! Ed infatti, come si è appena visto e con le
precisazioni che a breve si diranno, si deve ribadire come sia ormai pacifico in dottrina che, vista anche la possibilità dell'art. 2386, quarto comma, di attribuire addirittura la gestione interinale ad un organo strutturalmente privo di poteri gestori quale è il Collegio sindacale, la disciplina della prorogatio di cui all'art. 2385, primo comma, non può in alcun modo ritenersi espressione di alcun tipo di principio inderogabile (v., ad es., GHEZZI, Commento all'art. 2386 c.c., in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti-L.A. Bianchi-F. Ghezzi- M. Notari, Milano, 2005, p. 271).
Proseguendo lungo questa linea, occorre poi ulteriormente rilevare che:
(i) se è lecito che in presenza di una clausola simul stabunt lo statuto possa determinare il momento della cessazione dei consiglieri che rassegnando le dimissioni fanno scattare la decadenza dell'intero Consiglio nei due estremi dell'efficacia immediata per tutti della cessazione, o differita per tutti;
(ii) se è lecito che lo statuto scelga la via intermedia della cessazione immediata di chi presenta le dimissioni determinando la decadenza dell'intero Consiglio e la prorogatio degli altri consiglieri, cioè di coloro che sono "trascinati" nella decadenza;
(iii) allora, è anche certamente lecito differire gli effetti delle dimissioni di chi con le dimissioni determina la cessazione dell'intero Consiglio ad una data successiva a quella in cui le dimissioni sono state comunicate ma antecedente alla ricostituzione del Consiglio.
In altri termini: l'art. 2386, quarto e quinto comma, nel momento in cui consentono sia il differimento della cessazione di chi si dimette e di chi rimane in carica, sia l'allineamento della cessazione, consente pure di differentemente graduare nel tempo la efficacia della cessazione di chi si dimette facendo scattare la clausola simul stabunt e la cessazione di chi decade per l'operare della clausola stessa.
In quest'ultimo caso, la situazione di chi decide di cessare dalla carica non cambia rispetto a quella dell'effetto immediato delle dimissioni: dal momento di efficacia delle dimissioni, ancorché con termine iniziale successivo al giorno in cui sono state annunziate, restano in carica solo i "restanti amministratori". Sino all'efficacia delle dimissioni restano in carica sia chi ha deciso di cessare, seppure a termine, sia i restanti amministratori. Con l'efficacia al verificarsi del termine apposto alle dimissioni delle dimissioni stesse, solo gli altri amministratori, ancorché rappresentino la minoranza dei componenti del Consiglio, restano in carica perché l'art. 2386 quarto comma consente la deroga all'art. 2385 primo comma.
Corollario generale indiscutibile delle clausole simul stabunt a efficacia graduata è che, non operando l'art. 2385 primo comma, gli amministratori che cessano per rinuncia dal momento della efficacia della loro rinuncia non sono più in carica: evidentemente, allora, non possono essere revocati perché per definizione solo un amministratore in carica può essere revocato dalla carica stessa. Ma non possono neppure, questi amministratori cessati, venire essi soli sostituiti perché, operando la clausola simul stabunt, è ormai tutto il Consiglio da rinnovare, secondo le procedure inderogabili dettate per le società quotate.
Il che, nuovamente, porta a considerare non legittima l'iniziativa di integrazione dell'ordine del giorno assunta dal Collegio sindacale.
Dato l'ampio spettro di soluzioni che la legge consente, la cui articolata tipologia si è sopra richiamata, è essenziale guardare in concreto alla clausola statutaria da applicare. Avverte infatti la dottrina che dato l'ampio ventaglio di soluzioni offerto dalla legge "la determinazione del momento della cessazione dell'intero Consiglio a seguito del venir meno di uno o più consiglieri non può che conseguire ad una interpretazione del testo letterale che la clausola può…di volta in volta assumere" (PAGANO, op. cit., p. 678).
Ed allora, è chiaro che la clausola TIM adotta un sistema ad efficacia differita nel senso che la cessazione di consiglieri "nel momento in cui il Consiglio di Amministrazione è stato ricostituito per nomina assembleare" riguarda solo i consiglieri che non sono già, come è possibile anche se si tratta della maggioranza, cessati, ma solo quelli che per il venire meno "per qualsiasi causa o ragione" della maggioranza dei colleghi, si intendono dimissionari. È infatti, secondo la clausola TIM, la loro cessazione che ha effetto dalla ricostituzione dell'intero Consiglio.
Dunque, è l'interpretazione letterale e non equivocabile a sancire la possibilità di cessazione differenziata della maggioranza di consiglieri rispetto agli altri componenti. La maggioranza, ove la cessazione sia un atto di volontà, d'altro canto cessa quando chi esprime la volontà di cessare ritiene di fare decorrere la cessazione. I rimanenti consiglieri, si ribadisce, cesseranno con la ricostituzione dell'intero Consiglio.
Posto che alla cessazione per rinuncia è apponibile un termine iniziale – nella specie: dall'inizio dell'assemblea del 24 aprile – è da questo momento che la maggioranza cessa per effetto della deroga che l'art. 2386, quarto e quinto comma, consentono rispetto all'art. 2385, primo comma -; da questo momento resteranno in carica, e semmai saranno revocabili, sino alla ricostituzione dell'intero Consiglio i componenti che non diedero le dimissioni.
Nella breve relazione del Collegio sindacale, vengono richiamate, per sostenere la posizione qui invece ritenuta non legittima, una pronuncia del Tribunale di Milano ed una massima notarile n. H.C.9 - (Termini di efficacia della cessazione dei consiglieri di amministrazione in seguito a rinuncia di uno o più di essi in presenza della clausola simul stabunt simul cadent) del Triveneto.
La pronuncia del Tribunale di Milano del 10 giugno 2008 (Rel. Ciampi, Est. Fiecconi) sembrerebbe supportare la tesi per cui, ove non sia stata attivata la previsione della decadenza immediata di tutti i consiglieri in una clausola di simul stabunt, la cessazione della maggioranza dovrebbe essere assoggettata alla prorogatio dell'art. 2385 primo comma.
Una lettura attenta della pronuncia in esame, tuttavia, ne ridimensiona drasticamente la portata, quanto meno ai fini che qui interessano. Come il giudice milanese più volte sottolinea, infatti, lo sforzo in quella decisione non era tanto quello di comprendere se la prorogatio dell'art. 2385, primo comma, dovesse essere considerata una regola organizzativa espressione di un principio di ordine pubblico (posizione, come si è detto, a cui da tempo nessuno più crede in dottrina). La sentenza, piuttosto, è volta ad interpretare una clausola statutaria di simul stabunt nella quale evidentemente non veniva sufficientemente chiarito il momento della cessazione degli amministratori dimissionari e di quelli "trascinati". Ed infatti, sulla base delle informazioni ritraibili dal Registro delle Imprese, recitava la clausola in questi termini: "qualora per dimissioni o per qualsiasi altra causa venga a mancare la maggioranza dei Consiglieri nominati dall'Assemblea, si intenderà decaduto l'intero Consiglio e si dovrà senza indugio convocare l'Assemblea per la nomina dell'intero Consiglio" (art. 14).
La pronuncia, nel contesto di questo specifico percorso di interpretazione dello statuto, accede alla tesi per cui, nel silenzio, appunto, dello statuto, l'assetto organizzativo da applicare nel momento dell'attivazione della simul stabunt per dimissioni di una maggioranza di consiglieri sarebbe quello della prorogatio della maggioranza stessa. Ma anche un'opzione ermeneutica siffatta non impedisce affatto che una specifica clausola statutaria disponga invece diversamene, ed è proprio quello che, come si è visto, accade in TIM.
Se invece si volesse leggere nella citata pronuncia un supporto alla più radicale tesi (oggettivamente non sostenibile) della inderogabilità del meccanismo di prorogatio enunciato dall'art. 2385, primo comma, se davvero così fosse, dicevo, la sentenza finirebbe con l'urtare palesemente contro il combinato disposto della disciplina della prorogatio medesima e dell'art. 2386, quarto comma, dal quale risulta che la prorogatio dell'art. 2385, primo comma si applica solo per la cessazione che non determini per l'operare del simul stabunt la cessazione dell'intero Consiglio.
Ed inoltre, quand'anche si volesse accedere a non sostenibili letture imperative dell'art. 2385, primo comma, rimane comunque fermo, nel caso di specie, che il complesso dell'integrazione dell'ordine del giorno porta ad una nomina selettiva di parte del Consiglio in palese spregio della clausola statutaria e della disciplina di legge sulla nomina dell'organo amministrativo. E questo, si ripete, a prescindere dalla lettura che si voglia fare della sentenza di Milano qui richiamata.
Analogo discorso deve a mio avviso essere svolto con riferimento alla massima notarile del Triveneto H.C.9. Ancora una volta, infatti, si tratta non già di una insostenibile petizione di principio circa la inderogabilità della prorogatio dell'art.
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2385, primo comma, ma semplicemente di una lettura di quella che dovrebbe (ad avviso dei redattori della massima) considerarsi la disciplina standard in presenza di una clausola simul stabunt che non affronti espressamente il tema.
In senso contrario alle posizioni che si stanno qui sostenendo si potrebbe poi invocare la tesi per cui la regola dell'art. 2386, quarto comma, si applicherebbe solo al caso di cessazione per cause diverse dalle dimissioni; il che, nuovamente, porterebbe a non considerare legittime le clausole statutarie (come quella di TIM) che invece ne ripercorrono il tenore. Tale tesi, però, urterebbe anzitutto con la lettura sistematica della disciplina della cessazione degli amministratori. Si è già detto infatti che quando il legislatore intende riferirsi solo alla causa di cessazione derivata da dimissioni parla di "rinunzia" (art. 2385, primo comma), mentre allorché si parla di cessazione in generale ci si riferisce a "qualsiasi causa di cessazione" (art. 2385, terzo comma). Ma, soprattutto, allorché l'art. 2386, quarto comma, prevede la possibilità che una clausola statutaria in caso di "cessazione di taluni amministratori" determini la decadenza dell'intero Consiglio attribuendo la gestione all'organo di controllo, evidentemente non può che riferirsi anche all'ipotesi della cessazione per dimissioni. È evidente infatti che una cessazione per morte o decadenza per il venir meno di requisiti dell'amministratore non tollererebbe altra soluzione che quella della gestione interinale dei sindaci, non potendosi ipotizzare prorogatio in capo a chi non c'è più o è espulso per norme inderogabili di ordine pubblico dal Consiglio.
E va comunque rilevato che anche se, per assurdo, si ammettesse che la cessazione dell'art. 2386, quarto comma, che fa restare in carica i restanti amministratori sia solo la cessazione per cause oggettive (morte, decadenza per venire meno dei requisiti, ecc.) e non per dimissioni (operando in tal caso la prorogatio in nome di un favor per la gestione riconducibile alla volontà assembleare), anche, si ripete, ove si adottasse questa pur insostenibile tesi, certo è che non sarebbe ammessa una ricostituzione "a tappe" del Consiglio e tanto meno la sostituzione solo di alcuni componenti del Consiglio cessato nella sua totalità in forza di una clausola simul stabunt.
Se così non fosse, si aprirebbe la via, lo si ripete ancora una volta, ad un gravissimo vulnus della disciplina a tutela delle minoranze nelle società quotate. Se infatti una minoranza ritenendo nel corso del mandato del Consiglio di Amministrazione di essere divenuta maggioranza procedesse alla revoca dei consiglieri in carica "di maggioranza" sostituendoli con nominativi di sua espressione, e lasciando in carica i consiglieri dell'originaria "minoranza", si avrebbe l'appropriazione della maggioranza dei consiglieri al di fuori di una assemblea convocata per la nomina dell'intero Consiglio. E così, l'originaria maggioranza potrebbe certo diventare minoranza, ma non essere neppure più rappresentata come minoranza in Consiglio; il che contrasterebbe con le prescrizioni inderogabili dello statuto che il Consiglio e l'organo di controllo di una società quotata devono fare rispettare.
Se con l'inizio dell'assemblea del 24 aprile 2018 alcuni (la maggioranza) degli amministratori TIM è cessata, la stessa assemblea non può evidentemente revocare tali amministratori.
Non può nemmeno sostituirli, si è già anticipato, perché l'assemblea non è convocata per la nomina del nuovo intero Consiglio così come richiede la clausola simul stabunt di TIM, ma come, ancor prima, richiede l'art. 2386, che vede l'esito dell'operatività delle clausole simul stabunt nella cessazione dello "intero Consiglio" e quindi nella nomina one shot, contestuale, del "nuovo consiglio", cioè dell'intero nuovo organo amministrativo. E ciò in armonia, si ripete ancora, con quanto richiede la disciplina delle società quotate, che impone la procedura del voto per liste per la nomina dei "componenti del consiglio di amministrazione", e cioè dei "nuovi amministratori" dell'art. 2386, quarto comma.
Un'assemblea che avesse in questo contesto, e cioè una volta scattata la clausola simul stabunt e così in corso della fase rinunzia di amministratori – convocazione dell'assemblea per il rinnovo dell'intero consiglio, un'assemblea, si diceva, che interferisse in questa sequenza procedurale pretendendo di sostituire amministratori già cessati, ma non l'intero Consiglio avrebbe un contenuto impossibile e illecito. Di qui la inammissibilità di un'integrazione dell'ordine del giorno ex art. 2367 o 126-bis TU 58/1998 che pretenda, essendo scattata la clausola simul stabunt ed essendo nell'ambito di questa graduate temporalmente le cessazioni dei singoli amministratori, la sostituzione selettiva di soli alcuni amministratori e non la nomina dell'intero Consiglio secondo la procedura dettata per le società quotate.
prof. Piergaetano Marchetti
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